lunedì 28 maggio 2012

La decadenza del Pd Siciliano.



Si è riunita, domenica 27 maggio, l’assemblea regionale del pd siciliano che ha visto chiuso un accordo tra il  Segretario Lupo (che non è stato sfiduciato) e l’area che fa capo a Lumia – Cracolici e a Innovazione. Accordo che prevede un direttorio composto da un gruppo di persone, di cui anche il Segretario del Pd siciliano.
Un’assemblea movimentata che ha visto protagonisti i deputati regionali che si azzuffavano in modo vergognoso. Una guerra di tutti contro tutti. Gli insulti, le accuse sono stati accompagnati da aggettivi irripetibili e i componenti assistevano allo spettacolo basiti e ammutoliti. Un’assemblea confusa, smarrita, scollegata, senza nessuna prospettiva.
La mozione di sfiducia al Segretario Lupo è stata ritirata, i promotori della stessa si sono presentati all’assemblea senza avere il coraggio di esporla ai componenti e soprattutto non avendo i numeri per  poterla votare.
Atteggiamento vergognoso, quello dell’attuale classe dirigente del Partito Democratico Siciliano, che ha mostrato di non essere in grado di gestire un partito. In queste ore abbiamo colto tutta l’inadeguatezza e lo squallore di questi personaggi politici che non hanno fatto altro che rovinare del tutto l’immagine e la credibilità del nostro partito.
Un partito che, in Sicilia, ha perso la sua identità, non rispettandone né i valori né i principi. Un partito in cui i deputati regionali hanno sempre dettato le regole e la linea politica a loro piacimento senza considerare le esigenze della nostra isola e soprattutto, in molte occasioni, scavalcando la volontà degli iscritti.
Un partito che si dice “democratico” ma che di democratico non ha nulla.  Il partito dei “giovani” che, però, vede in loro una “minaccia” invece che una “risorsa”.
Un partito, quello nostro, che non è riuscito a far valere la propria linea politica nemmeno all’interno del governo siciliano che amministriamo da diversi anni insieme a Lombardo.
Una classe dirigente fallimentare capace solamente di pensare ai loro interessi personali e a litigare anche nei momenti meno opportuni.  
Un partito che ha fatto scelte che non hanno nulla a che vedere con la buona politica. Siamo in mano ad una classe dirigente che sembra aver smarrito il senso della sua missione e che a seguito di questo smarrimento rischia di perdere ogni legittimazione, sia da parte dei siciliani che degli iscritti.
Lo stato indecoroso del nostro partito ormai è sotto gli occhi di tutti ed è inutile nasconderci dietro l’impossibile. Lo hanno dimostrato, ancora una volta, con gli inciuci che hanno reso ridicola questa assemblea regionale. Un partito allo sbando che non ha progetti e obiettivi ma solo la preoccupazione di chi deve andare a riempire le liste alle prossime elezioni politiche.
Non serve un consenso, se poi non si hanno idee, programmi e proposte di come gestire e rilanciare un partito in evidente declino di ruolo e perfino di identità. E proprio a seguito di questa condizione che è il caso di asserire con fermezza che deve andare a casa questa classe dirigente, che è riuscita, fino ad ora, solo grazie alle sue potenzialità economiche e massoniche, a dominare uomini e cose nella nostra Regione oltre che all’interno del nostro partito.  
Io desidero un partito che sappia accogliere ed interpretare le istanze dei cittadini, che riesca a rispondere realmente alle esigenze della nostra isola e dei siciliani. Che riesca a far tornare la Sicilia una terra all'altezza della sua storia.
Per queste diverse esigenze, occorre che la prossima classe dirigenziale del Pd siciliano sappia rispondere in modo adeguato puntando sul recupero della nostra identità e su una più moderna integrazione con il resto della regione.
E alla luce di questo voglio appellarmi ai giovani del Partito Democratico siciliano dicendo loro che è arrivato il momento di capire che se vogliamo essere la futura classe dirigente di questo partito dobbiamo avere il coraggio di alzare la nostra voce.
E siamo proprio noi giovani a doverci fare un esame di coscienza, perché non solo abbiamo contribuito ad eleggere questa classe dirigente, ma siamo rimasti fermi ad aspettare che qualcuno facesse il nostro bene. Ed è proprio in questo che abbiamo sbagliato e continuiamo a farlo.
E per questi motivi, non finirò mai di dire ai giovani, ai miei coetanei, di avvicinarsi alla politica, perché attraverso le nostre idee, il nostro pensiero, la nostra consapevolezza, il nostro contributo, insieme possiamo certamente cambiare qualcosa, partendo dai territori e puntando sempre più in alto. Si può fare, ma ci dobbiamo provare. Non lamentiamoci solamente, ma cerchiamo di costruire l’alternativa ad un modo di far politica che non ci appartiene. Partendo dal “NOI”, donne, uomini, giovani, tutti insieme partecipando attivamente a cambiare il “come della politica”, ovvero il modo in cui si propone al giorno d’oggi, svincolandoci dal capo-bastone di turno e mettendo in campo le nostre capacità.

Costruiamo insieme la storia politica di ciascuno di noi e soprattutto ridiamo dignità al nostro partito.



DISABILI: ANDARE A MARE SENZA BARRIERE.



In un territorio a vocazione turistica come quello ragusano, nel periodo estivo si avverte maggiormente il disagio dei soggetti disabili, per i quali diventa difficile la fruibilità delle spiagge libere e di buona parte degli stabilimenti balneari presenti, e ancor più l’ingresso in acqua.
Le persone con problemi motori, infatti, non possono raggiungere agevolmente il bagnasciuga, e meno che mai entrare in acqua. E’ per tali motivi, che ogni anno,  considero la nostra località marittima ancora un luogo pieno di ostacoli e di barriere e soprattutto mancante di quegli adeguamenti strutturali, previsti dalla normativa vigente, che permettano ai diversamente abili la visitabilità della spiaggia pubblica e soprattutto l’effettiva possibilità di accesso al mare.
Mancano adeguate discese a mare che permettano loro di arrivare in prossimità della battigia, e poter sistemare la propria sdraio/sedia e ombrellone, senza doversi impantanare nella sabbia con la carrozzina.  
In merito a quanto sopra, esiste la legge n.104 del 5.12.1992 che promuove la piena integrazione della persona diversamente abile nella collettività; in particolare all’art.8 prevede iniziative volte a ridurre stati di esclusione sociale ed interventi diretti ad eliminare o superare le barriere fisiche ed architettoniche; poi vi è la Legge n.13 del 9.01.1989 ("Disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche"); a seguire, il Ministero della Marina Mercantile ha emesso una Circolare n. 259 del 23 gennaio 1990 che estende l'applicabilità delle norme sull'accessibilità anche agli stabilimenti balneari, obbligando così i concessionari ad apprestare almeno una cabina ed un locale igienico idoneo ad accogliere persone con ridotta od impedita capacità motoria o sensoriale, nonché di rendere la struttura stessa «visitabile» nel senso specificato dall'art. 3 punto 3.1 del Decreto n.236/1989, soprattutto in funzione dell'effettiva possibilità di balneazione, anche attraverso la predisposizione di appositi «percorsi orizzontali».
Tali norme che obbligano i concessionari di spiagge pubbliche ad offrire una dotazione di base sufficiente a garantire la visitabilità delle loro strutture, deve rappresentare, per le Amministrazioni pubbliche e per i gestori degli stabilimenti balneari, il punto di partenza da cui sviluppare ulteriori riflessioni sull'effettiva capacità di accoglienza degli stabilimenti balneari e delle spiagge pubbliche.
Infatti, secondo tali disposizioni, si doveva garantire anche alle persone con difficoltà motorie l'accesso ad uno dei beni più apprezzati della nostra isola: il mare.
Purtroppo si è visto che rispettare e far rispettare la normativa non basta. Pertanto uno stabilimento balneare o la spiaggia libera pubblica, oltre a considerarsi "a norma", dovrebbe essere completamente accessibile a tutti e soprattutto garantire ai diversamente abili un mezzo idoneo per entrare in acqua.
A tal proposito, presenterò, in qualità di assistente sociale, una richiesta specifica all’Amministrazione Comunale  per provvedere alla realizzazione di accessi attrezzati con passerelle, docce e servizi igienici accessibili per soggetti portatori di handicap presso le spiagge libere, e postazioni accessibili e mezzi idonei per l’ingresso in acqua presso gli stabilimenti balneari. Se non dovesse essere presa in considerazione provvederò ad organizzare una petizione popolare. 

Valentina Spata

venerdì 25 maggio 2012

Lettera di Manfredi, il figlio di Paolo Borsellino.



Non ci sono parole da commentare o da aggiungere a questa lettera strappalacrime. Vi consiglio semplicemente di leggerla per non dimenticare GIOVANNI FALCONE E PAOLO BORSELLINO.

MANFREDI BORSELLINO. Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi.


Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola.



Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia. Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.



Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua.

Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima. Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati” qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni.



La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per “fottere” il mondo con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Palermo e storico esponente dell’Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive.



Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia “loffia” domenicale tradendo un certo desiderio di “fare strada” insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre.

Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese. Ma quella era un’estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dolo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci.



Così quell’estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo “esposta” per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata protezione di chi vi dimorava. Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel “suo” mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare.

Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel “tenere comizio” come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione.



Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii.

Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggia lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via D’Amelio.



Non vidi mio padre, o meglio i suoi “resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui riconosciuto dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna. Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un’ultima volta.



La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza “se” e senza “ma” a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in “familiari superstiti di una vittima della mafia”, che noi vivessimo come figli o moglie di ….., desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva “Paolino” sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.



Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza “farci largo” con il nostro cognome, divenuto “pesante” in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo “montati la testa”, rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta.



Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ossia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipendentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere.

D’altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre, una persona che in un modo o nell’altro avrebbe “sfruttato” questo rapporto di sangue, avrebbe “cavalcato” l’evento traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di …. o perché di cognome fa Borsellino. A tal proposito ho ben presente l’insegnamento di mio padre, per il quale nulla si doveva chiedere che non fosse già dovuto o che non si potesse ottenere con le sole proprie forze. Diceva mio padre che chiedere un favore o una raccomandazione significa mettersi nelle condizioni di dovere essere debitore nei riguardi di chi elargisce il favore o la raccomandazione, quindi non essere più liberi ma condizionati, sotto il ricatto, fino a quando non si restituisce il favore o la raccomandazione ricevuta.



Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita.



Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere.



( La testimonianza del figlio del giudice – pubblicata per gentile concessione dell’editore – chiude il libro “Era d’estate”, curato dai giornalisti Roberto Puglisi e Alessandra Turrisi- Pietro Vittorietti editore).

PD: INGIUSTI GLI ATTACCHI AL GIORNALISTA BARBAGALLO DA PARTE DEL SEGRETARIO DEL MIO PARTITO.


Apprendo dalla Stampa che il Segretario del mio partito, Calabrese, si è reso protagonista di un increscioso episodio che mi lascia perplessa e allibita. Ha attaccato pubblicamente e duramente, Michelangelo Barbagallo, corrispondente de  “La Sicilia”, con insulti rivolti alla sua persona e alla sua famiglia. Lo ha accusato di essere un giornalista di parte, a favore del Sindaco di Ragusa, Nello Dipasquale. Inoltre, ancora peggio, come lui stesso ha scritto sulla sua bacheca di facebook , accusa Barbagallo di aver ricevuto attraverso la sua società incarichi dal Sindaco che ammontano a circa 20.000, 00 euro.
Una reazione, quella di Calabrese, che comunque non mi sarei mai aspettata. Conosco, il giornalista Barbagallo, che da sempre scrive i suoi articoli in modo dettagliato e preciso, raccontando la verità dei fatti. Chi legge i giornali tutti i giorni si renderà conto che il corrispondente de “La Sicilia” ha anche scritto articoli a favore del Partito Democratico e altri criticando il Sindaco Dipasquale, quindi non vedo nessuna differenza di trattamento tra Calabrese e il resto del mondo politico.
Giudico il comportamento del mio Segretario, un segnale preoccupante” che mi fa pensare ad una azione mediatica e altresì ad una campagna di “odio” politico personale che imperversa da mesi. Io non tollero questo modo di far politica. Non è “gridando”, “accusando” gli avversari che si ottengono i risultati. Bisogna criticare in modo costruttivo e trovare delle soluzioni alternative ai problemi della città. La politica deve essere intesa come un servizio per la città e non  come personalismi vari.
Pertanto, presa visione di tutto ciò, da iscritta al Partito Democratico, esprimo la mia più totale solidarietà e vicinanza a Michelangelo Barbagallo e mi dissocio fortemente dalle accuse del Segretario del mio partito e da tutti quelli che rimangono in silenzio di fronte a questi atti ridicoli. 

Valentina Spata

martedì 22 maggio 2012

Non si può morire a 16 anni!

Non si può morire andando a scuola. Non dovrebbe avvenire questo, in un Paese “normale”. Ma l’Italia ha smesso di essere un Paese normale, da tempo. O forse mai lo è stato davvero. Chi è stato ad uccidere Melissa e a ferire altre nove persone sabato mattina all’ingresso dell’Istituto femminile “Francesca Laura Morvillo – Falcone”? Chi è Stato? È questo il rabbioso interrogativo che ha dipinto il volto delle migliaia di persone che hanno affollato Piazza Vittoria per esprimere solidarietà alle famiglie delle vittime o semplicemente per gridare tutto il proprio sdegno. Brindisi è una città “liquida” da anni. E non perché ci sia il mare. Perché ci sono un mare di contraddizioni che la rendono un luogo difficile da amare, spesso pure per gli stessi brindisini. La città, infatti – potrò sbagliare – ma sembra la Corleone degli anni ’70. Il puzzo della mafia – che per alcuni continua a non esistere – ha avvelenato l’aria, ha corroso i polmoni, ha confuso e ottenebrato le menti di intere generazioni che sono oggi diventate classe dirigente di un non-luogo dove vige imperante il potere dell’anti-parola. Del silenzio. Dell’omertà. Dell’indifferenza. La parola usata, piuttosto, come arma per intimidire chi in questi anni ha reagito, come i ragazzi eccezionali della cooperativa di Torchiarolo “Libera Terra” (i cui terreni sono stati incendiati più volte negli ultimi anni) operante in uno dei beni confiscati alla Sacra Corona Unita dove la parola diventa ogni giorno un seme di speranza con il sogno di raccogliere il frutto del cambiamento. Parole che diventano, però, sempre più spesso, lance pronte a trafiggere i sogni innocenti di quei giovani adolescenti del cui presente e futuro non ci interessiamo a sufficienza. Saette scagliate – come ha ricordato dal palco il “partigiano della legalità” Don Luigi Ciotti – da una classe politica e dirigente locale e nazionale che non sa più far emozionare perché ha bandito il senso di responsabilità e il senso del dovere dal proprio vademecum comportamentale. Che non è credibile, che non è foriera del buon esempio, che si è spogliata della moralità, che non ha coraggio. “Coraggio”: che parola meravigliosa. Cor-agium. Agire col cuore. In quanti oggi operano lealmente col cuore, issandosi arbitrariamente sul piedistallo della buona politica?
Sono anni che a tutte le latitudini si violenta l’arte della politica parlando alla pancia e alla testa delle persone, come se fossimo non individui, ma clienti di un megastore da appagare con una miriade di illusioni. Ci si sta svegliando, temo, da questa Utopia nel modo peggiore. Con una voglia, oggi meno secretata che mai, di violenza. Sta esacerbando l’intolleranza verso chi profetizza un avvenire che non lo riguarda. Il passo dalle illusioni alle delusioni è assai breve. Dopo la delusione c’è la rabbia. C’è l’odio. Proprio quei “sentimenti” che con preoccupazione sincera ho percepito negli sguardi, soprattutto giovani, dei ragazzi e ragazze scesi in piazza e giunti in poche ore da tutta la Puglia. Occhi e sguardi, compreso il mio, che hanno versato lacrime dolorose. Tante. Per una famiglia che ha perso l’unica figlia che aveva, con una brutalità incredibile. Per un Paese che, giorno dopo giorno, sempre più, uccide se stesso. Un Paese dove pullulano i caini e i giuda. Da sempre. Un Paese che sa unirsi nelle sue sconfitte. Quando si oltrepassa la soglia dell’umanità. Quando viene crocifissa la dignità degli innocenti. È un Paese, il nostro, sfigurato, avendo sciolto nell’acido dell’illegalità il dono della democrazia. E dell’uguaglianza. Al mondo che ci irride mostriamo nient’altro che una maschera. Incapaci di svelare i segreti e i misteri che da decenni tengono l’Italia sotto ricatto. Incapaci di pretendere verità e giustizia. È un Paese sorto sul sangue dei giusti. È un Paese che non è Stato. Chi è Stato? Siamo Noi. Siamo stati anche noi meridionali, prima ancora di noi italiani, ad uccidere la piccola Melissa. Perché non siamo stati abbastanza vivi in tutti questi anni. Perché fino ad oggi non siamo stati artefici del nostro destino. Lo abbiamo delegato prima a quella che chiamiamo Repubblica e poi a quella che chiamiamo Mafia. Ma, da queste parti, talvolta, sono le due facce della stessa medaglia. Non siamo mai stati capaci di costruire un futuro improntato al rispetto di se stessi e degli altri, basato sulla cultura della prossimità e della solidarietà, della legalità e della responsabilità. Individuale e collettiva. E’ stata la mafia? E’ stato un atto terroristico? E’ stato il gesto isolato di un folle? Saperlo, oggi, cambierebbe qualcosa? Forse cambierebbe per il Ministro Cancellieri che, da quanto si apprende dagli organi di stampa, ritiene che la vicenda possa essere risolta con 200 poliziotti e investigatori in più, come se fosse soltanto un problema di ordine pubblico. Forse cambierebbe per quel giornalismo pietoso e vergognoso che vive di sensazionalismi e di spettacolarizzazioni del dolore, spingendo i lettori ad essere il pubblico di un teatrino del grottesco dove non si rappresentano le verità, ma le opinioni di sciacalli che puntano a non far emergere i giusti quadri conoscitivi della nostra realtà sociale cosi complessa. Il problema, pertanto, è, per me ma posso sbagliare, ancora una volta culturale e politico. Colpire, nel Sud, una scuola ha un significato preciso. Colpire, nel Sud, un giovane ha un significato preciso. Colpire, nel Sud, una donna, soprattutto, ha un significato preciso. Le donne, le giovani donne meridionali, in particolare, in questi ultimi anni, spesso iniziando proprio dai percorsi di educazione alla legalità avviatisi in tantissime scuole, rappresentano e simboleggiano perfettamente il cambiamento ineludibile e necessario che sta investendo quel Mezzogiorno che vuole crescere, che vuole correre verso il futuro consapevole dei propri talenti, che vorrebbe raccontarsi in modo diverso per poter scrivere un’altra Storia. Un meridione che vorrebbe diventare, con merito, la locomotiva della Prossima Italia. Trasparente ed onesto. Appassionato ed entusiasta. Dove il terrore collettivo creato ad arte non si insinui nell’anima di chi vorrebbe essere un costruttore di pace e non un portatore di guerra e di odio. Chiunque voi siate e qualunque sia la ragione di questo attentato alla nostra speranza, non ci fermerete. Trasformeremo in energia positiva e propositiva tutto questo immenso dolore e questo senso profondissimo di smarrimento. Imparando a governare meglio i nostri istinti e le nostre pulsioni. Tipiche di chi ha conosciuto la morte. Ma tipiche di chi dalle ceneri sa e vuole risorgere. Per noi stessi, per le nostre comunità. Per il nostro Paese. L’Italia. Con la speranza che diventi finalmente Stato
di Giuseppe Milano

mercoledì 9 maggio 2012

Le idee di Peppino Impastato e Moro restano e continuano a camminare sulle nostre gambe!!



Ho letto il  Comunicato Stampa di un amico, un Dirigente del Pd di Serino (Avellino) e non avendo parole migliori per commemorare un giorno importante come quello di oggi ho voluto pubblicarlo nel mio blog. 







9 Maggio 1978. Solo scrivere questa data colpisce come un pugno nello stomaco.

Due fatti di sangue contraddistinsero quella triste giornata, l’assassinio del Presidente della Democrazia Cristina Aldo Moro, per mano delle Brigate Rosse ed il ritrovamento del suo cadavere in via Caetani a Roma, e l’omicidio del giovane militante di Sinistra siciliano Peppino Impastato ad opera della mafia.

Ricordare, a 34 anni di distanza, quelle due morti rappresenta, per tanti di noi, un momento di vicinanza verso chi, anche a costo della vita, ha speso la propria esistenza per l’interesse generale.

Le storie di Moro e Impastato, anche se molto diverse tra loro, furono accomunate dalla forza delle loro idee.
Il Presidente Moro, che rappresentava la parte più avanzata della democrazia cristiana, proveniente dalla cultura dossettiana, avviò un dialogo con il Segretario del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer per aprire in Italia una nuova stagione politica meglio conosciuta come “compromesso storico”. Una nuova fase politica con l’incontro delle due principali Culture del Paese, quella cattolica e quella riformista rappresentate rispettivamente dalla DC e dal PCI, con lo scopo di rinnovare profondamente lo Stato italiano e consentire alle classi lavoratrici di accedere al governo del Paese, insomma una vera e propria rivoluzione democratica. Va ricordato che la mattina del rapimento dello Statista democristiano da parte delle brigate rosse, in Parlamento sarebbe nato il primo Governo con i comunisti non all’opposizione.

Peppino Impastato rappresenta per la nostra generazione, e per quelle che ci hanno preceduto, un ragazzo come tanti che cercava, tramite il lavoro di un collettivo, di risollevare e cambiare le sorti della propria terra. Attraverso la costituzione del gruppo “musica e cultura” mise in essere tutta una serie di  attività culturali come cineforum, musica, teatro, dibattiti, ecc. per fare interessare quanti più concittadini e giovani alle problematiche del proprio comune così da poter dare maggior voce all’azione di denuncia nei confronti del sistema mafioso portato avanti dal capo clan Gaetano Badalamenti. Radio Aut, radio libera ed autofinanziata, fu uno degli strumenti con il quale Peppino ed i compagni di Cinisi cercarono di scalfire il clan Badalamenti e l’amministrazione comunale corrotta.

Peppino era un ragazzo di sinistra. La sua storia rappresenta in maniera concreta cosa vuol dire emanciparsi dai condizionamenti esterni che può imporre la società o la famiglia, come nel suo caso. Essere imparentato con dei mafiosi non gli impedì di lottare contro questo cancro con tutto se stesso.
Fu vigliaccamente assassinato nella notte a cavallo tra l’8 ed il 9 Maggio durante la tornata elettorale delle amministrative dove quest’ultimo era candidato nel suo comune, Cinisi.

Peppino Impastato vive ogni giorno attraverso l’azione di tutti coloro che si impegnano in politica e nel sociale per migliorare la realtà nella quale vivono 365 giorni all’anno e non soltanto durante le campagne elettorali.
L’antipolitica ed il malaffare si combattono con la buona politica attraverso l’esercizio della legalità, della trasparenza e della difesa dei più deboli.
Queste elezioni amministrative ci ha mostrato due aspetti in maniera chiara. In primo luogo la sfiducia e la disaffezione di tanti che non credono più che le cose possano migliorare e la seconda che ci sono migliaia di militanti ed onesti amministratori che, con il loro lavoro, ci danno una speranza dalla quale ripartire per un cambiamento reale.

Serino, 09/05/2012                                                                                                                     

Marcello Rocco
Segretario PD Serino – Componente Assemblea reg. PD

sabato 5 maggio 2012

Dona il Tuo 5 x mille all' ANFFAS di Modica. Io lo faccio e tu???

Può essere destinato all’Anffas Onlus di Modica il 5 per mille della prossima dichiarazione dei redditi al C.F. 90013380887 che sarà utilizzato per la realizzazione di un centro residenziale “Dopo di Noi”. Il centro servirà per ospitare persone con disabilità intellettive e relazionali, orfane o prive di famiglia ma anche per far crescere i laboratori (Artistico, Cognitivo, Animazione, Cucina , Escursione) del Centro Socio Educativo Pomeridiano.

Inoltre l’Anffas apre le porte dell’associazione a chi vuole dedicarsi al volontariato (anche solo per un’ora alla settimana) ed invita le famiglie con parenti con disabilità ad associarsi. "Per Risucire a Cambiare bisogna essere uniti". L’Anffas Onlus di Modica fa, per di più, affidamento anche sul buon senso di tutti i cittadini, chiedendo un contributo che può essere donato attraverso il C/C Bancario n. 1155452/06AB.05036 CAB.84480, e ricordando, inoltre, che è possibile ottenere dei benefici fiscali previsti per chi effettua donazioni ad una Onlus (Decreto legge 14 marzo 2005, n. 35”).




L'AEROPORTO DI CATANIA CHIUDE E QUELLO DI COMISO RIMANE ANCORA BLOCCATO!!


Il direttore dell'aeroporto di Catania Enzo Fusco annuncia la chiusura della struttura nel mese di novembre, per almeno un mese, a causa dei lavori di manutenzione della pista. 
La domanda che tutti ci stiamo ponendo in questi giorni è dove saranno dirottati i voli. Le alternative indicate dalla Sac sono gli aeroporti di Sigonella, Palermo e addirittura Reggio Calabria. 


L'On. Pippo Digiacomo, che nei giorni scorsi è stato il protagonista dello sciopero della fame a causa della blocco dell'avvio dell'aeroporto di Comiso, dopo aver appreso la notizia dichiara: "Leggo con rammarico che le attività di volo non potranno probabilmente essere trasferite a Comiso perché  la società di gestione non avrebbe approntato il piano industriale. Pertanto,le opzioni sono Sigonella, Palermo, Reggio Calabria, etc… Forse nessuno ha informato ENAC che il gestore di Catania è lo stesso di Comiso e forse nessuno ha informato il dottor Fusco che a pochi metri di distanza dal suo ufficio c’è quello dell’ing. Mancini, presidente sia di SAC che di Intersac che è il socio privato di Comiso. Quindi basterebbe andare”in fondo a destra” e dire a Mancini: siccome porteremo disagio a milioni di cittadini siciliani, possiamo andare a Comiso che è un aeroporto nuovo, confortevole, tecnologicamente avanzato, che come Enac abbiamo seguito in  tutte le fasi, dalla progettazione , ai lavori, al collaudo (facendoci pagare) e che è scandalosamente chiuso. Anzi, questi pochi metri  da un ufficio all’altro non c’era bisogno di farli, giacché erano in conferenza stampa insieme. Invece c’è una sorta di gara tra Enac ed Enav a chi infonde più sconforto e confusione, a chi riesce ad assestare i colpi più vigorosi alla speranza di vedere presto aperto lo scalo comisano. Ma come non si vergognano enti statali che sono stati creati per snellire le procedure aeroportuali e che, al contrario, si segnalano per atteggiamenti ostruzionistici se non vessatori, oltre che per altri inquietanti aspetti sui quali, come tutti sanno, sta indagando la magistratura e non solo quella contabile. Come non si vergognano questi burosauri che  sono leoni a Comiso e pecore servili e sottomesse a Roma, pronte a scodinzolare col potente di turno?
Costi quel che costi,  di ciò e altro ancora, dell’immenso marciume che si annida nelle pieghe del burocraticume italiano, a partire dalla bozza di convenzione Enav,  quella dove senza il minimo di trasparenza contabile chiedono 2,6 milioni di euro l’anno per garantire i servizi di assistenza al volo per un aeroporto  per il  quale l’ente si erano impegnati a rendere il servizio gratis, con dovizia di particolari e prove, parlerò al ministro Passera nel nostro incontro prossimo venturo”

E' evidente, a mio avviso, che dietro questa vicenda ci siano interessi più grandi. Di sicuro non si vogliono dirottare i voli a Comiso, così come non si vuole aprire l'aeroporto, perchè a Catania si toglierebbe una grande fetta del bacino d'utenza. 
Resta il fatto che, per l'ennesima volta, la nostra Provincia viene abbandonata a se stessa. 
E' necessario adesso battere i pugni forti e fare sentire alta la nostra voce. Non è possibile che sia a livello regionale che a livello nazionale nessuno si interessi della vicenda. Non è possibile che si parli dell'aeroporto di Comiso, una delle strutture più importanti del meridione pronto per l'utilizzo da diversi anni, solo in campagna elettorale. Ricordo l'ex ministro Alfano quando venne in occasione della campagna elettorale dell'attuale sindaco di Ragusa, Nello Dipasquale, che annunciò pubblicamente il suo impegno (in pochi mesi) a far firmare questo maledetto decreto che impedisce l'autorizzazione al volo. Ancora lo aspettiamo!!
Adesso è inconcepibile che, alla chiusura dell'aeroporto di Catania, tutta l'utenza si debba spostare a palermo o a Reggio Calabria per usufruire del servizio di volo. Penso ai cittadini della mia provincia che per raggiungere queste due destinazioni devono partire almeno 6 ore prima da casa facendosi almeno 4 ore di viaggio in macchina. Conviene viaggiare in macchina, si risparmia più tempo e più denaro!! 
Questo sembra somigliare ad un complotto contro la Provincia di Ragusa, considerata la provincia "babba" forse a causa della scarsa competenza e dello poco valore della nostra classe dirigente politica, forse perchè nessuno è stato in grado di far valere i nostri interessi. 
Il mio auspicio è che l'On. Digiacomo riuscirà ad ottenere risultati positivi durante l'incontro con il ministro Passera e che finalmente riusciremo ad aprire l'Aeroporto di Comiso. In un periodo di crisi come questa, l'apertura di una grande struttura come il nostro aeroporto, starebbe a significare sviluppo, crescita e occupazione. 

Valentina Spata